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Il silenzio, la luce dei lumini e il portale della Chiesa del Purgatorio che si apre per fare spazio alla Croce, portata in processione dall’Arciconfraternita della Morte, la cui fondazione risalirebbe ai primi anni del 1600. Ecco, la Quaresima a Molfetta comincia così.
Quello della Quaresima è uno dei momenti più intensi della comunità locale. Un periodo che racchiude un mix perfetto di religiosità popolare, folclore, fede e devozione.
Nella notte tra martedì 21 febbraio e mercoledì 22 febbraio, come da tradizione sarà l’Arciconfraternita della Morte dal Sacco Nero a dare inizio al primo rito di passaggio, la processione della Croce. E sarà sempre la medesima Arciconfraternita a chiudere la Quaresima con la processione della Pietà nel sabato santo che precede la domenica di Pasqua.
A mezzanotte in punto, nella completa oscurità, la Croce viene portata fuori dalla Chiesa del Purgatorio.
Sosta sul sagrato della Chiesa, mentre la campana batte il primo di trentatré rintocchi, seguita dalla campana della Cattedrale e da quella di altre chiese di Molfetta.
Per tutta la durata dei rintocchi la Croce resta ferma e viene illuminata solo dai lumini. Dopo il Ti-Tè, una melodia che rappresenta le processioni a Molfetta, la Croce viene issata e comincia la processione che si scioglierà sulla scalinata del Calvario, quando è ancora notte fonda, come ricorda Orazio Panunzio in un suo scritto e come è ancora oggi.
È la pietà popolare, la religiosità che profuma di popolo, l’elemento che caratterizza i riti della Passione che a Molfetta si consuma in modo preponderante per strada, con le processioni che coinvolgono migliaia di persone ogni anno, da decenni. La città torna indietro nel tempo. I rumori del traffico vengono sostituiti dal suono delle marce funebri e dalle preghiere. La religiosità popolare è esternata con gesti concreti. Ed è attorno a questi riti che si ritrova, forte, il senso di comunità.
La prima delle Processioni è quella dell’Addolorata che si svolge nel venerdì precedente la domenica delle Palme e che attraversa le vie cittadine accompagnata dai confratelli della Morte. Quella dell’Addolorata è di fatto la processione che apre la strada ai riti della Settimana Santa caratterizzata da due processioni, quella dei Misteri e quella della pietà.
La Processione dei Misteri è la più antica. Organizzata dall’Arciconfraternita di Santo Stefano dal Sacco Rosso, le cui tracce risalgono alla prima metà del XV secolo, la processione si svolge il venerdì santo ed è un momento di straordinaria bellezza e forte emotività.
I confratelli portano in spalla cinque statue in legno che rappresentano i Misteri dolorosi: Cristo nell’Orto degli Ulivi, Cristo della Flagellazione, l’Ecce Homo, il Cristo al Calvario e il Cristo Morto. Le insegne sono il sacco rosso con cappuccio dello stesso colore, cingolo e guanti marroni. Tutti i confratelli, sotto il sacco, indossano un abito con cravatta di colore scuro e camicia bianca. Oltre ad organizzare attività di culto, che trovano il loro apice nella processione dei Cinque Misteri, l’Arciconfraternita ha mostrato nel tempo un importante impegno caritativo attraverso l’Opera Bontà di Santo Stefano.
La Processione della Pietà è curata dell’Arciconfraternita della Morte dal Sacco Nero. Della confraternita, un tempo, potevano far parte solo esponenti di alcuni ceti. L’Arciconfraternita oggi è composta oltre che da professionisti, dottori e impiegati anche da artigiani, operai, commercianti, marinai e contadini.
Le statue della Processione del Sabato Santo, sono portate in spalla dai componenti delle Confraternite dell’Assunta con camice bianco, mozzetta con fiorellini rossi, della Madonna del Carmine con camice bianco, mozzetta viola, dalla confraternita della Purificazione dal camice bianco, mozzetta gialla, della Madonna di Loreto dal camice bianco e mozzetta nera, dell’Immacolata con camice bianco e mozzetta celeste e la confraternita di Sant’Antonio con camice bianco e mozzetta bianca. A portare le prestigiose statue in cartapesta, realizzate dallo scultore Giulio Cozzoli, ci sono anche le confraternite di Santo Stefano e della Morte.
A fare da sottofondo ci sono le marce funebri che accompagnano le processioni e le emozioni dei molfettesi per tutto il periodo quaresimale. Ne vengono eseguite di bellissime. Un esempio per tutti è “U’ conzasigge”, composta nel 1857 da Vincenzo Valente, ed eseguita durante la processione notturna del Cristo morto. Altrettanto bella è “Dolor” attribuita a Saverio Calò, composta nel 1897, che viene eseguita quando la statua della Pietà lascia la Chiesa del Purgatorio il sabato Santo. E poi c’è lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini, La Marcia del Palmieri e il Ti tè, di autore ignoto.
«Riti antichissimi che – spiega il Sindaco, Tommaso Minervini – richiamano emozioni ancestrali nei molfettesi ovunque si trovino nel mondo perché ti ricordano il volto del nonno o di tuo padre che, con orgoglio, ti iscriveva alla congregazione di appartenenza e tu bambino lo seguivi. Perché ti ricorda il volto della nonna o di tua madre che ti portava all’uscita o alla ritirata o in quel preciso punto dove sempre a quell’ora passava il Cristo, la Madonna o i Santi. Perché ti ricorda l’incontro con i tuoi cugini che non vedevi spesso o lo zio che per l’occasione sbarcava o tornava dall’America o il fratello grande dalla Germania o da Milano.
I riti della Pasqua costituiscono ormai il liquido amniotico della città di Molfetta e sono tramandati di generazione in generazione.
Sono il DNA della memoria collettiva che – continua il Primo cittadino – non vogliamo sfumare. Anzi, in un momento storico sociologico e anche di fede che declina sempre più verso il materialismo individuale, dobbiamo essere grati a quegli uomini “fissati” perché grazie a loro ancora oggi possiamo rivivere i riti e con loro le emozioni ancestrali della nostra Pasqua Molfettese».
Più volte al sindaco Minervini sono giunte richieste per dichiarare tutto questo patrimonio immateriale della comunità di Molfetta.
«L’impegno assunto pubblicamente da qualche anno – conclude il Sindaco – sarà realizzato in piena sintonia col nostro Vescovo. Perché l’identità comunitaria è una sola, tramandata, documentano gli atti, dal 1600 ad oggi e noi dobbiamo custodirla per tramandarla alle generazioni future, ut unum sint».
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